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Testi tratti dal Libro "Parrocchia e Solidarietà Familiare: sacramento di comunione" di Marco Giordano, Punto Famiglia Editrice, 2014 (per ricevere il testo completo del Sussidio)
1. FAMIGLIE SOLIDALI. CHI SONO? COSA FANNO?
SOLITUDINE E BISOGNO DI VICINANZA
Precarizzazione dei legami e globalizzazione dell’indifferenza
L’aspetto più amaro della condizione di solitudine che ogni giorno tutti noi sperimentiamo, che in modo speciale sperimentano le "famiglie in difficoltà", ma che tocca anche quelle che apparentemente sembrano "funzionare", è legato al vivere con gli altri nella consapevolezza di non essere con essi.
Quante sono le coppie che vivono la solitudine pur essendo in due?
Quanto è diffusa la mancanza di dialogo coniugale? E la carenza di dialogo con i figli?
Come l’incedere di un tempo sociale sempre più stressante, indebolisce i legami familiari e le relazioni con il mondo esterno (i parenti, il vicinato, …)?
Non c’è tempo! Non c’è più tempo e le energie da destinare a rafforzare il nucleo familiare sembrano ridursi sempre più. Carriera, attività extralavorative, fatiche esistenziali e problemi sentimentali, intasano la vita degli adulti, mentre i piccoli crescono sempre più soli ed insicuri.
Anche l’adolescenza soffre di solitudine: mancano punti di riferimento saldi per poter alimentare un’identità sicura.
Gli anziani, sempre più numerosi e sempre più "relegati" alle cure delle badanti straniere.
Cosa facciamo per metterci insieme e prenderci cura dei bisogni che ciascuno di noi ha, a prescindere dalla propria posizione economica e sociale?
Le ordinarie fasi del ciclo di vita di una famiglia da sempre si caratterizzano per il sopraggiungere di crisi evolutive del sistema familiare che interpellano compiti educativi diversi, utili alla crescita e al cambiamento dei membri della famiglia.
Nelle famiglie del nostro tempo, più che in quelle delle generazioni precedenti, accade però che facciano capolino eventi critici dirompenti: primi fra tutti la separazione di coppia. Ma anche la perdita del lavoro e le difficoltà economiche, che fanno a pugni con stili di vita consumistici che è difficile ridimensionare. Quali possono essere in questi casi le misure di sostegno attuabili? Quali le misure preventive? Quali quelle "riparative" e protettive?
Coloro che sono impegnati negli ambiti della pastorale, dell’educazione e del sociale ben sanno che, laddove la famiglia sperimenta condizioni di grave difficoltà, solitudine, povertà culturale, povertà economica, povertà relazionale, la trasmissione intergenerazionale delle carenze diventa inevitabile, a meno che non vengano attivati efficaci meccanismi riparativi. In questo scenario la madre di tutte le difficoltà è la crescente solitudine, o meglio l’isolamento, che le famiglie e le persone "regalano a se stesse". Come fronteggiare questa deriva?
Se un lato della medaglia è la solitudine di chi sta male (e, a ben vedere, di tutti), l’altra faccia è la crescente indifferenza da parte delle generalità delle persone verso la sofferenza altrui. Di questo ha spesso parlato Papa Francesco, come quando nel luglio 2013 a Lampedusa, è intervenuto sulla tragedia delle centinaia di profughi nordafricani annegati nel canale di Sicilia: «La cultura del benessere, che ci porta a pensare a noi stessi, ci rende insensibili alle grida degli altri, ci fa vivere in bolle di sapone, che sono belle, ma non sono nulla, sono l’illusione del futile, del provvisorio, che porta all’indifferenza verso gli altri, anzi porta alla globalizzazione dell’indifferenza. In questo mondo della globalizzazione siamo caduti nella globalizzazione dell’indifferenza. Ci siamo abituati alla sofferenza dell’altro, non ci riguarda, non ci interessa, non è affare nostro!». È questo il "principale nemico" contro cui impegnarci. Non solo il disagio degli esclusi ma anche l’indifferenza degli altri, degli "escludenti". Senza una reale inversione di marcia la nostra società diviene sempre più "fredda" (Z. Bauman) e "a rischio" (U. Beck).
Le relazioni positive alla base della buona crescita
Negli Orientamenti pastorali dell’episcopato italiano per il decennio 2010-
Un tempo le relazioni di buon vicinato creavano premesse importanti affinché vi fosse intorno a ciascuna famiglia una rete di relazioni allargate significative, non sempre necessariamente caratterizzate dal vincolo di sangue (una sorta di "parentela sociale").
Così, una mamma in difficoltà, un papà con dei problemi, un bambino lasciato solo a giocare per tante ore nel cortile e i cui genitori rincasavano tardi, trovava più frequentemente una "zia" pronta a vederlo, incontrarlo nei suoi bisogni, rispondere alle sue primarie esigenze, … Insomma, c’erano spazi meno strutturati e istruiti, ma grembi caldi e accoglienti pronti a svolgere la loro funzione di protezione e orientamento e ad assicurare adeguati rifornimenti di "beni interiori", semplici e preziosi.
Cosa si può fare affinché il quotidiano non diventi una fabbrica di solitudine che si rigenera nel passaggio da una generazione all’altra?
Come numerosi studi hanno confermato, ogni persona, anche la più disagiata o problematica, ha insito in sé il "potenziale interumano". È cioè capace di mettersi in relazione offrendo benefici e traendone contemporaneamente, nella reciprocità del dono, grazie alla dimensione di prossimità.
Questa "forza benefica" delle relazioni sane è così potente che giunge ad avere addirittura effetti riparativi, di rivalutazione e riedificazione, per tutte coloro che subiscono o hanno subito carenze. È su questa base che bambini "carenziati" (adulti di domani) e genitori in difficoltà (bambini "carenziati" di ieri) possono gradualmente liberarsi dalla profonda disistima (cioè dall’incapacità interiorizzata) che le incurie e i maltrattamenti provocano.
Se le relazioni interpersonali sono così importanti per il benessere di ciascuno, non possiamo esimerci dal compito di promuovere processi di "alfabetizzazione relazionale" o, come ancora più chiaramente dichiarano gli Orientamenti 2010-
Promuovere relazioni positive significa favorire nelle persone la possibilità di maturare una maggiore e più consapevole fiducia in se stessi e negli altri. Per le coppie e le famiglie significa anche comprendere, e in alcuni casi "risignificare", l'invito a vivere una piena fecondità intesa non solo in senso biologico ma educativo e relazionale.
DALL’ASSISTENZA ALLA RELAZIONE. SPECIFICITÀ DELLA SOLIDARIETÀ FAMILIARE
Ripensare la solidarietà. Non assistere ma incontrare
In un recente seminario di formazione per le caritas parrocchiali, organizzato da una diocesi campana, si ponevano ai partecipanti tre quesiti:
A quante famiglie date il pacco viveri?
Quante di queste famiglie sono ben conosciute dai volontari caritas?
Quante di queste famiglie sono state visitate a casa dai volontari caritas?
Scopo dell’esercizio era quello di sottolineare la necessità di non appiattirsi su forme anonime di assistenza (quale potrebbe essere la distribuzione di viveri a persone sconosciute) bensì di integrare il sostegno materiale con attenzioni personalizzate: conoscere la storia, chiamare per nome, visitare a casa.
C’è però da chiedersi in quale misura tali attenzioni, pur necessarie ed importanti, siano sufficienti. O se invece esse non rischino di colmare apparentemente il divario esistente tra volontari e assistiti, lasciando di fatto una netta distinzione tra benefattori e beneficiari. Distinzione che, come molte indagini dimostrano, rischia tanto più di far scivolare le famiglie nel disagio, quanto più esse si "convincono" di essere disagiate. A queste famiglie e persone probabilmente pensava Anthony De Mello quando scrisse il libro Messaggio per un’aquila che si crede un pollo. A queste famiglie è collegabile anche una nota frase di don Antonio Mazzi: «il disagio è effetto, non causa». Effetto di tanti avvenimenti e vicende ma, soprattutto, effetto della solitudine. Don Mazzi ne parla facendo riferimento ai tossicodipendenti. Si tratta tuttavia di un concetto a valenza universale e quindi applicabile anche al campo delle famiglie in difficoltà.
Ad uno sguardo attento e libero da pregiudizi, appare chiaro che la causa principale del disagio di molte famiglie è il loro essere "escluse", e ancora prima il loro essere semplicemente "famiglie sole".
Questo ci permette di affermare che la lotta al disagio familiare e minorile è la lotta alla solitudine, sia dei bambini e dei ragazzi che delle loro famiglie! Tutto ciò deve interpellarci con forza. Don Mazzi ripete spesso ai suoi: «Occorre fare qualcosa! Non possiamo chiudere gli occhi e far finta di niente. … [Non possiamo] passare oltre!».
Ma cosa può fare una famiglia solidale nei confronti del diffuso disagio relazionale e sociale a volte strutturatosi nell’arco di generazioni? Una risposta importante ci viene da Giancarlo Cursi e dalla rete dei volontari Salesiani. In particolare tre spunti appaino assai significativi:
«il primo passo per risolvere una situazione di disagio è aiutare ogni membro della famiglia a riconquistare la propria dignità …;
«È all’interno di una relazione confidenziale tra pari, da famiglia a famiglia, che possono essere cercati ed espressi gesti e contenuti che aiutano a recuperare e favorire il protagonismo personale e familiare di chi vive in situazioni di disagio;
«Le "famiglie difficili" nel momento in cui sono considerate non utenti ma partner sono messe nella condizione di agire come soggetti sociali …».
Si tratta quindi non tanto di aiutare in modo più o meno efficace le famiglie ma di incontrarle.
Ma quante volte riusciamo ad incontrare "veramente" queste famiglie?
Eric Berne, psichiatra canadese che nel secolo scorso ha fondato l’analisi transazionale, ha molto approfondito questo tema, coniando una delle più belle definizioni dell’incontro con l’altro: «…vedere l’altra persona, diventarne coscienti come fenomeno, esistere per lei ed essere pronti al suo esistere per noi». È una definizione che vale in generale ma che si presenta particolarmente efficace nelle situazioni nelle quali l’altro è "diverso" e questo caratterizza spesso l’incontro con le famiglie in difficoltà.
Commentando Berne, Rino Ventriglia così definisce l’incontro con l’Altro:
«Vedere: possiamo guardare chi ci è accanto ma non vederlo quando le barriere create dalle nostre certezza, dai nostri assoluti, delle idee su di noi, gli altri, il mondo, la "spazzatura che ci portiamo dietro dal reparto maternità" (Berne), sono troppo rigide. Immaginiamo una griglia con maglie fittissime: attraverso di essa al massimo possiamo intravedere una sagoma sfumata, non certo i lineamenti, gli atteggiamenti, le rughe, gli occhi.
Esserne coscienti: quell’incontro è unico, irripetibile, un’occasione unica (…); questa consapevolezza porta, di conseguenza, una domanda: come vivere un incontro che, sappiamo, non si ripeterà?
Esistere per lui: (…) cosa significa esistere per qualcuno? Il vivere "per" mi fa pensare a una concezione di rapporto in cui incontrare l’altro assume il significato d’amore, di dono, di accoglienza dei suoi dolori, delle gioie, delle sconfitte, delle paure, dei traguardi raggiunti, della disperazione. Ma si può accogliere qualcosa solo se c’è spazio; posso accogliere una persona solo se metto da parte le mie idee, i miei desideri, i miei progetti.
Essere pronti al suo esistere per noi: accettare il pacco regalo che l’altro porta… possono essere carezze, riconoscimenti o critiche, giudizi. L’altro guarda le nostre ombre, i difetti, i limiti… Riconoscere i nostri limiti ci aiuta a dare il "permesso" all’Altro a riconoscere i suoi».
Don Carlo Gnocchi sempre ricordava ai suoi collaboratori: «non c’è il giovane, ma i giovani. Non esiste il tipo umano universale, ma ogni individuo è un caso a se stante, con fenomeni propri, con sviluppi e complicanze assolutamente originali. La natura non si ripete mai. Quindi ricette pedagogiche a uso universale e medicine per tutti i mali non ve ne sono …». Applicando queste riflessioni alle famiglie in difficoltà con cui ci incontriamo possiamo affermare: non esiste "la" famiglia, ma "le" famiglie! Soprattutto, non esistono, ricette sociali universali. Ogni volta, con ogni persona, dobbiamo costruire una storia nuova.
Detta in altre parole, occorre aver presente che ogni famiglia, anche se in difficoltà, è sempre una famiglia "unica" e che nella sua unicità rappresenta una grande risorsa per noi e per tutta la comunità in cui è inserita. Quello che questa famiglia può dare ai propri figli ed alla comunità tutta non possono darlo gli altri.
Non fare i salvatori. Oltre la dicotomia benefattore/beneficiario
Ritorniamo ai tre quesiti posti ai volontari delle Caritas parrocchiali. A questi aggiungiamone altri tre, incentrati sulla logica dell’incontro:
quante delle famiglie e persone che aiutiamo sono state a casa nostra?
quante di queste famiglie abbiamo messo in relazione con i nostri amici e parenti?
quante di queste famiglie abbiamo coinvolto in un ruolo attivo e di servizio?
Sono tre punti di domanda che spiazzano ma che ci danno, al di là delle buone intenzioni, la misura di quanta distanza poniamo tra noi stessi e le persone che "aiutiamo". In questa linea anche la sollecitazione della Conferenza Episcopale Italiana alle coppie e alle famiglie cristiane affinché «aprano le porte della propria casa, e ancor più del proprio cuore, alla necessità dei fratelli e attuino forme concrete di accoglienza ai minori, alle persone in difficoltà e ad altre famiglie» (Direttorio di Pastorale Familiare, n. 159).
Citando Carolina Rossi, è possibile affermare che con le famiglie in difficoltà bisogna «sporcarsi le mani, cioè "osare" per far crescere l’intimità e quindi le possibilità di una relazione costruttiva». Il termine "sporcarsi le mani" per i volontari vuol dire: «poterci essere nella relazione con l’altro ed esserci fino in fondo», aprendosi anche ad una dimensione di reciprocità, condivisione e confronto dei bisogni. Persone che fanno esperienza di fiducia, di intimità, di valorizzazione dei propri vissuti e delle proprie risorse, maturano fiducia, intimità con se stessi ed autostima. Solo partendo dall’acquisizione dell’autostima e dall’idea di poter esistere positivamente per l’altro ciascuno poi può farsi a sua volta promotore di esperienze di vicinanza relazionale ad altri.
Certo occorre evitare l’invischiamento! Ci possono essere famiglie in difficoltà che a volte assumono atteggiamenti manipolativi, specie nelle situazioni di maggiore problematicità. In tali casi è importante un gioco di squadra in cui più volontari ed operatori si impegnano a svolgere ruoli diversi. Chi segue i bambini, ad esempio, è bene che non svolga ruoli educativi "diretti" nei confronti della famiglia d’origine, né funzioni di assistenza economico-
Occorre poi evitare la pretesa di ottenere in tempi brevi risultati evidenti e positivi. Ci è di aiuto una massima di Martin Buber: «l’uomo è come un albero. Se ti metti di fronte a un albero e lo guardi incessantemente per vedere se cresce e di quanto sia cresciuto, non vedrai nulla. Ma curalo in ogni momento, liberalo dal superfluo e tienilo pulito [...] ed esso, a tempo debito, comincerà a crescere. Lo stesso vale anche per l’uomo: unica cosa che gli serve è superare lacci e impedimenti, e non mancherà di svilupparsi e crescere. Ma è sbagliato esaminarlo in continuazione per scoprire quanto è cresciuto».
Bisogna infine evitare di assumere aspettative magiche e posizioni salvifiche, imparando -
la modalità dell’aiutatore, cioè di colui che aiuta quando c’è un reale bisogno. Soprattutto quando c’è una richiesta. Aiuta a crescere, perché riconosce all’altro la possibilità di fare delle cose, la possibilità/necessità di attivarsi.
la modalità del salvatore, cioè di colui che aiuta sempre, anche quando non c’è una reale richiesta da parte della persona aiutata. È sempre pronto a dare. Il salvatore ha bisogno di dare per esserci. Risponde quindi ad un suo bisogno! Anzi, dando sempre e troppo, rischia di stimolare nella famiglia una condizione di dipendenza.
Entrambi partono dal medesimo punto, cioè dalla generosità e dalla disponibilità per gli altri, dal desiderio di dare. Quello che cambia è la modalità. Bisogna allora chiedersi: «Noi siamo più "aiutatori" o più "salvatori"?».
A bene vedere si tratta di due dimensioni contemporaneamente presenti nell’agire solidale. In genere si è un po’ l’uno ed un po’ l’altro! Per questo è necessario prendere coscienza del proprio stile di aiuto e dei limiti connessi. Questa consapevolezza permette di gestire le proprie criticità e di trasformarle in risorse.
Riscoprirsi famiglie bisognose
Superare la dicotomia tra "famiglie risorsa" e "famiglie bisogno" significa farsi promotori di spazi aggregativi permanenti tra famiglie, capaci di stimolare rapporti di fiducia, di consolidare l’appartenenza comunitaria e l’attivazione di reti di solidarietà. Più famiglie insieme si concepiscono alla pari e puntano a valorizzare la relazione aldilà delle etichette della difficoltà sociale. Un approccio non formale ed eminentemente preventivo, che si incentra sulla convinzione che ogni persona, anche la più problematica, ha insito in sé un potenziale relazionale, e, sopratutto, ha risorse da donare. Questo si traduce in partecipazione sociale attiva e nel superamento dell’assistenzialismo che non valorizza l’autonomia.
Ci fa da maestro in questo il buon vicinato di un tempo. In quel caso, famiglie che abitavano lo stesso quartiere, condividevano reciprocamente la cura dei figli ed in questo si contagiavano, adeguandosi ai modelli relazionali ed educativi altrui, modificando un po’ anche i propri. Vivere quindi la dimensione di "famiglie insieme" consentiva nel quotidiano di entrare nell’esperienza dell’altro, contaminandosi positivamente. Tutto ciò avveniva naturalmente, come espressione di un’appartenenza e di un radicamento territoriale, sociale e culturale oltre che affettivo. Si tratterebbe oggi di aiutare la realtà sociale nella quale siamo imbrigliati a riscoprire quella dimensione di reciprocità, che accorcia le distanze tra famiglia accogliente e famiglia con disagio, ne rompe le asimmetrie, per renderle famiglie che si mettono insieme per riscoprire la dimensione dello scambio e del sostegno reciproco.
Tutto questo richiede però un ulteriore ampliamento di visuale da parte delle "famiglie risorsa". Ci aiuta una ulteriore provocazione proveniente dalla rete del volontariato salesiano: «Il fondamento di una famiglia "risorsa" è nello stile di risposta al proprio "bisogno"». In "soldoni" si potrebbe dirla così: «se tu che ritieni di essere una famiglie solidale, utilizzi il tuo potere economico per risolvere autonomamente quella parte delle tue esigenze familiari che potrebbero trovare una soluzione attraverso l’aiuto da parte di altre famiglie – ad esempio l’accudimento, la cura, l’animazione dei propri figli nelle fasce orarie post-
Dobbiamo, insomma, imparare ad essere bisognosi e a chiedere aiuto.
Nessuno ci chiede di essere perfetti! Questo slogan, tratto dal titolo di un libro di Harold Samuel Kushner, ci ricorda che quello che ci è chiesto ogni giorno – dalle famiglie in difficoltà ma anche, e innanzitutto, dai nostri cari, -
Superare il "top" e il "down"
Mariano Iavarone, assistente sociale e counselor familiare, sottolinea che «la mente umana tende ad escludere ciò che è diverso, ciò che non è familiare, ciò che il proprio schema di riferimento considera come "altro da se". Ebbene: per poter incontrare veramente chi vive nel bisogno, bisogna che noi stessi si calchi il terreno del bisogno, in modo che tale suolo diventi a noi familiare e non più estraneo, e che sia "normale e spontaneo" intervenire, giacché vi si parla un linguaggio a noi noto. Questo approccio elimina atteggiamenti di beneficenza: non c’è più un "top" e un "down", si è tutti sullo stesso livello, a scambiarsi beni e relazioni. Se così non fosse non si spiegherebbe come mai tante persone "agiate", magari molto motivate e formate a valori altruistici o religiosi, rimangano "immobili" rispetto all’agire sociale: il disagio, la sofferenza, il bisogno sono lontani da loro, non fanno parte della esperienza della loro quotidianità, per cui si arriva a guardarli da lontano o a difendersi col diniego, con la rimozione o con l’intellettualizzazione. Movimenti di massa e insorgenze popolari ci dimostrano, viceversa, che il cambiamento trova radice non tanto in filosofie o in filantropismi ma innanzitutto in un sentimento comune, in un pathos condiviso». 1
IDENTIKIT DELLA FAMIGLIA SOLIDALE
Non super-
Sulla base di quanto sopra affermare che il requisito principale per essere una buona famiglia solidale è essere persone normali, ordinarie, con le loro risorse ma anche con i loro bisogni. Non dunque super-
Volendo tratteggiare l’identikit di queste famiglie è utile far riferimento a tre aree.
La capacità. Ogni persona ha un proprio profilo attitudinale (connesso all’indole, al carattere, alle doti innate) che incide notevolmente sulla tipologia di attività nelle quali "si riesce bene". Ogni persona inoltre ha un proprio bagaglio di conoscenze, competenze, consapevolezze acquisite tramite lo studio, il lavoro, le esperienze. Questo mix rende alcune persone più attrezzate sul piano logico e organizzativo, altre su quello intuitivo, altre sul piano creativo; di tutte queste aree ogni famiglia solidale è diversamente attrezzata. Ogni attitudine e competenza è preziosa e bisogna saperla valorizzare. Non vi sono gerarchie particolari e la scommessa sta in una buona e corale integrazione delle capacità di ciascuno. V’è però un insieme di capacità che per una famiglia solidale hanno un’oggettiva prevalenza sulle altre: le capacità relazionali (capacità empatica, capacità genitoriale sociale, capacità educativa, capacità riflessiva, flessibilità e apertura al cambiamento, capacità di collaborare all’interno di un sistema di relazioni complesse, capacità di reagire positivamente in situazioni stressanti).
La motivazione. Il tema della motivazione delle famiglie alla solidarietà ha a che fare con la meta che le stesse intendono raggiungere e con l’insieme dei fattori che spingono il loro comportamento verso tale meta. Occorre domandarsi: «Perché lo faccio? Con quale scopo? Per chi lo faccio? Per me o per coloro ai quali mi dedico? Quale stabilità ha il mio impegno?». Si tratta di un tema molto ampio, inerente l’intensità e la "direzione" con cui le persone si attivano. Quando si punta a coinvolgere in percorsi di solidarietà interi nuclei familiari, occorre tener presente che ciascun componente di tali nuclei ha motivazioni proprie, diverse da quelle degli altri, o addirittura in contrasto con esse.
La fascia d'età e la composizione familiare. La solidarietà familiare non ha limiti d'età né richiede necessariamente una certa "composizione familiare". Se l'invito è rivolto innanzitutto a famiglie con figli, questo non significa, ad esempio, che una famiglia con figli grandi, già andati via, non possa svolgere un ottimo percorso (anzi, tante volte, l'avere figli autonomi e l'essere in pensione permette di avere molto più tempo a disposizione di quanto non capiti a coppie con figli piccoli e nel pieno dell'attività lavorativa). Come pure una coppia giovane e senza figli può cimentarsi in preziosi percorsi di solidarietà familiare. Ma anche una famiglia "monoparentale" (cioè composta solo da un genitore), o una coppia di fidanzati, o un giovane, o un anziano, ... insomma tutti -
Il profilo motivazionale della famiglia solidale
Senza entrare in tecnicismi psicologici (che ci porterebbero a distinguere tra motivazioni intrinseche e motivazioni estrinseche) riteniamo utile distinguere tra: -
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In un quadro fisiologico e di normalità ogni azione umana è sorretta da un mix motivazionale cioè vede la compresenza delle une e delle altre motivazioni. Ad esempio è normale che un gesto di solidarietà sia mosso sia da motivazioni di aiuto all’altro che da motivazioni di realizzazione personale. L’elemento che connota una famiglia solidale è la prevalenza delle motivazioni intrinseche ed etero-
Fondamenta spirituali dell’impegno solidale
Non è possibile completare la riflessione sul profilo della famiglia solidale senza richiamare un’ultima dimensione: la maturità spirituale.
Essa, a ben vedere, non è un’area che si affianca alle tre sopra illustrate. Piuttosto rappresenta la base sulla quale esse poggiano e al contempo l’orizzonte nel quale si muovono.
È nella relazione profonda e viva con l’Assoluto che ogni uomo, trovando se stesso, può superarsi ed andare oltre il suo limite e le sue grettezze.
È nel rapporto con l’Amore, che il "cuore di pietra" (Ez 36, 26-
Pur ritenendo che la solidarietà sia un terreno aperto, in cui tutti gli uomini di buona volontà sono chiamati ad operare, occorre al contempo ribadire che la presenza di un maturo cammino di fede offre alle famiglie solidali vigorose sollecitazioni e fortificazioni. Anzitutto si comprende che la solidarietà non è un optional, come affermato con vigore da Benedetto XVI nell’enciclica Deus Caritas Est: «La carità non è per la Chiesa una specie di attività di assistenza sociale che si potrebbe anche lasciare ad altri, ma appartiene alla sua natura, è espressione irrinunciabile della sua stessa essenza» (n. 25).
Certo parliamo di fede autentica, ben lontana da forme devozionali o di "fuga nello spirituale".
Forte e chiara la sollecitazione di San Giovanni Crisostomo, vescovo di Costantinopoli del IV secolo: «Vuoi onorare il corpo di Cristo?Non rendergli onore qui nel tempio con stoffe di seta, per poi trascurarlo fuori, dove patisce freddo e nudità»
Altrettanto eloquente quanto scrisse Georges Bernanos nel Diario di un curato di campagna: «Quando sarai rapito in Dio, se un malato ti chiede una tazza di brodo, scendi dal settimo cielo e dagli quello che domanda».
L’insegnamento evangelico e la testimonianza di tanti santi aiuta le famiglie a comprendere il modo della solidarietà, che non è beneficenza a distanza né mera assistenza. Nella lettera apostolica Novo millennio ineunte Giovanni Paolo II, sottolinea che occorre «farsi vicini (...) così che il gesto di aiuto sia sentito non come obolo umiliante, ma come fraterna condivisione» (n. 50).
Ma più di tutto, le famiglie solidali che si mettono alla sequela di Gesù -
Utile infine sottolineare che, anche con quelle famiglie di buona volontà che, pur non frequentando i sacramenti, fossero disponibili ad impegnarsi nella solidarietà, sarà importante l’invito a comprendere l’importanza di una buona "spiritualità". Questa, quand’anche non fosse declinata in una specifica religiosità, è e resta una dimensione fondamentale dell’agire umano in quanto lo pone di fronte alle domande fondamentali sul senso della vita, sulla dignità dell’uomo, sulla lotta tra il bene e il male.
Figli e solidarietà familiare
Un aspetto assai rilevante da considerare ogni qual volta si affronta il tema della solidarietà familiare è il ruolo dei figli. Non parliamo infatti di adulti solidali, o di genitori solidali, ma di famiglie solidali e una famiglia comprende necessariamente anche i figli (e gli altri eventuali componenti della famiglia: quali ad esempio un anziano convivente).
Figli di diversa età, ognuno con il suo assetto caratteriale, le sue inclinazioni ed aspirazioni. Figli in crescita, nei confronti dei quali i genitori hanno precise responsabilità educative, oltre che di cura e protezione.
Qual è il rapporto tra impegno solidale e responsabilità genitoriali? Si tratta di un quesito che si presenta con tanta più intensità quanto maggiore è la rilevanza dell’attività solidaristica intrapresa. Proviamo ad analizzare tre diverse angolature.
Il valore educativo della solidarietà. La solidarietà ha una grande rilevanza educativa a molteplici livelli. Innanzitutto è positivo per i figli, il vedere i genitori impegnati in concrete azioni solidaristiche, sia perché il buon esempio insegna molto più di tante parole (exempla trahunt), sia perché, come sottolineato da Benedetto XVI nella Lettera alla città di roma sul compito urgente dell’educazione, con la coerenza della vita e il coinvolgimento personale i genitori e gli educatori tutti acquisiscono quella autorevolezza che rende credibile l’esercizio del loro ruolo educativo. Inoltre è positivo per i figli sperimentarsi in prima persona in piccoli gesti solidali, nell’incontro con la diversità, nel confronto con la sofferenza. È positivo per i genitori osservare i figli all’opera, cogliendone tratti e inclinazioni diversamente non rilevabili. Ancora, è positivo per genitori e figli vivere il servizio insieme, sperimentando forme nuove di collaborazione e di sana complicità. Infine è positivo per la famiglia sperimentarsi nel raccordo con altre famiglie solidali, osservare gli altri figli e gli altri genitori, interagire con essi. Certo tutto questo rappresenta anche un banco di prova per la famiglia, poiché ne mette in evidenza (e quindi a nudo) le dinamiche interne, i limiti e i bisogni, oltre che i pregi e le risorse. Ma anche questo aspetto apparentemente negativo, se affrontato con maturità e semplicità, contribuisce alla crescita positiva del sistema familiare e al rafforzamento della sua capacità educativa. Utile citare quanto affermato negli Orientamenti Pastorali 2010-
L'equilibrio tra protezione e apertura. L’educazione per sua natura tende a lanciare i figli verso l’autonomia, il domani, l’oltre. Essi, specie se piccoli, hanno bisogno di protezione. Ma al contempo un vero cammino di crescita esige che essi escano, sperimentino, provino. Ogni scelta educativa comporta un certo margine di rischio (che possiamo definire "rischio educativo"). Il cammino della solidarietà familiare si inserisce a pieno in questa dimensione. Molti genitori infatti si chiedono se lo scegliere di frequentare famiglie "in difficoltà" possa esporre i propri figli al rischio di venire a contatto con stili di vita, comportamenti, valori ambigui o, addirittura, dannosi. Su questo fronte sarà cura dei genitori bilanciare attentamente protezione e apertura. Evitando di esporre i propri figli ad eccessivi pericoli, sarà importante per i genitori prendere coscienza delle "tendenze iper-
Il rispetto della disponibilità e tempi dei figli. Fin tanto che i figli sono piccoli, seguono quanto proposto loro dai genitori. Quando entrano nella pre-
Solidarietà condivisa: l’importanza del gruppo
Una dimensione molto importante per la buona riuscita di un percorso di solidarietà familiare è la partecipazione ad un gruppo di famiglie solidali. Nel gruppo infatti la famiglia si confronta, può prendere l’esempio da persone più mature nell’esperienza, può giovare di appuntamenti formativi e di riflessione, può ricevere e dare aiuti concreti ad altre famiglie solidali, può partecipare all’organizzazione di attività comuni.
Il gruppo inoltre aiuta a non "chiudersi in se stessi" e a non rinunciare all’impegno nei casi in cui ci si scontra con situazioni problematiche e complesse.
Si tratta di dimensioni assi preziose, tant’è che l’esperienza ha mostrato che la partecipazione ad un gruppo favorisce una maggiore stabilità della scelta di essere famiglie solidale.
2. PERCORSI PARROCCHIALI DI SOLIDARIETA' FAMILIARE. QUALI ATTIVITA'? COME INIZIARE?
PREVENZIONE, PROMOZIONE E SOSTEGNO FAMILIARE
L’importanza di intervenire prima
Prima di addentrarci nella disamina di alcune tra le più diffuse forme di solidarietà familiare, è utile sottolineare che troppo spesso gli interventi di sostegno alle famiglie in difficoltà, specie quelli realizzati dai servizi sociali territoriali e dalle altre agenzie pubbliche di tutela, hanno carattere "tardo-
Questo approccio sposta gli interventi su versanti sempre più specialistici e terapeutici: sia perché l’importanza del disagio (o addirittura del danno) è tale da richiedere intensi interventi da parte di professionisti esperti, sia perché i volontari, non potendo in molti casi costruire una "rapporto normale" con le famiglie disagiate, finiscono con il perdere di vista l’obiettivo "relazionale" del suo coinvolgimento.
A queste condizioni la solidarietà familiare è destinata a non svilupparsi affatto. Occorre giocare d’anticipo, agendo prima che i problemi s’incancreniscano, spostando l’asse dell’intervento solidale verso una dimensione incentrata sul buon vicinato e sulla solidarietà di quartiere.
L’intervento solidale deve dunque acquisire sempre più caratteristiche di tipo:
relazionale-
promozionale, in cui il ruolo del servizio pubblico viene per lo più assorbito dalle azioni d’informazione e formazione delle famiglie, da interventi di animazione comunitaria e di sensibilizzazione, da un lavoro che favorisca l’organizzazione di forme leggere di prossimità e lo sviluppo di reti locali d’intervento (capaci di coinvolgere agenzie come la scuola, l’associazionismo, i servizi pubblici, …).
"Tipi" di iniziative di solidarietà familiare
Le forme concrete attraverso le quali dare corpo da un percorso di solidarietà familiare possono essere infinite. La varietà dei contesti e delle situazioni, la diversità dei bisogni ai quali far fronte, le caratteristiche, la attitudini e le aspirazioni delle persone coinvolte, portano a dar vita ad attività e iniziative sempre uniche. Quand’anche fossero simili ad altre, saranno originali per la diversità delle persone che vi partecipano. Senza la pretesa di completezza, nella Tabella 1 si propone una suddivisione delle possibili iniziative in dieci categorie. Si tratta di una categorizzazione solo parzialmente corretta perché vi sono alcune attività che hanno valenze sia educative, che di aggregazione, come pure le singole attività possono avere valenze diverse a seconda della concreta modalità con cui vengono realizzate.
Lo scopo è di mettere in evidenza l’ampia varietà di soluzioni ed anche l’importanza di riflettere sulla necessità di programmare attività che rispondono ai bisogni effettivamente presenti. Sarebbe infatti sbagliato, ad esempio, limitarsi a proporre iniziative di aggregazione in contesti con forti bisogni di sostegno educativo. Viceversa sarebbe altrettanto miope pensare di intervenire direttamente sulle situazioni disagio quando il contesto comunitario in cui questo disagio si manifesta appare sfilacciato e primo di luoghi ed occasione di incontro e conoscenza tra famiglie e persone.
A ben vedere un sistema di solidarietà familiare maturo e ben articolato, dovrebbe basarsi non su una singola tipologia ma prevederne quante più possibile, in modo da avere una più amplia platea di strumenti da porre in essere. La situazione dei bisogni sociali è infatti tale da aver bisogno sia di attività individuali che di attività collettive, sia di interventi rivolti a tutti che di risposte specifiche a chi è nel disagio, sia di attività che sostengono l’intera famiglia che di azioni mirate ai genitori e/o ai figli.
PRIMI PASSI PER NUOVE FAMIGLIE SOLIDALI
Chiarita la natura della solidarietà familiare, il profilo delle famiglie solidali e le tipologie di attività realizzabili, è utile condividere una serie di considerazioni inerenti le modalità per individuare famiglie disponibili a questo percorso, ed in particolare sul tipo di attività da proporre nelle fasi iniziali del coinvolgimento.
Abbassare la "soglia di accesso" all’impegno solidale
Per "soglia d’accesso" all’impegno solidale intendiamo il "livello di disponibilità, motivazione, capacità ed esperienza" di cui una persona deve essere dotata per iniziare un’azione solidale.
In una strategia di promozione della solidarietà, finalizzata a coinvolgere nuove persone (le c.d. strategie di people raising o, come più semplicemente si dice, le attività di ricerca di nuovi volontari) "abbassare la soglia di accesso" significa scegliere di proporre alle persone l’impegno in azioni solidali che siano "alla loro portata", cioè che non gli richiedano di più di quello che sono in grado di dare in quel momento. Si tratta di rendere "più facilmente accessibile" alle persone l’impegno solidale. Questo non esclude che successivamente, a coloro che mostreranno una buona disponibilità, si possano proporre ulteriori e più intensi impegni. Ma all’inizio bisogna "andarci piano".
È questo uno dei motivi per cui, ad esempio, le numerose campagne di promozione dell’affidamento familiare -
Abbassare la soglia iniziale della disponibilità pratica
Abbassare il livello della disponibilità iniziale, significa mettere in conto la realizzazione di proposte basate sui seguenti elementi.
La riduzione degli oneri organizzativi e di tempo. Se il tempo oggi è una delle risorse più scarse, il tempo libero è risorsa "rara". Idem per le energie organizzative (energie fisiche, mentali, ...). A coloro che vengono coinvolti per la prima volta è bene chiedere minime disponibilità organizzative e di tempo. Utile sarà dunque proporre attività:
in zone vicine al luogo in cui la persona vive o lavora, in modo che non debba fare ogni volta molti chilometri per andare e venire;
in fasce orarie e giorni compatibili con gli impegni di lavoro delle persone. Ad esempio vanno preferiti il sabato o la domenica, mentre nei giorni feriali è importante prediligere le sere;
di ridotta frequenza. Ad esempio la frequenza di una volta al mese ben si presta ai ritmi di coloro che muovono i primi passi. L’organizzazione di un’attività che si svolge con questa frequenza -
Il contenimento degli oneri economici. Anche i mezzi economici sono oggi materia sempre meno abbondante. Diviene allora necessario proporre alle persone forme di solidarietà che non comportino particolari esborsi di denaro, forti costi di spostamento.
Abbassare la soglia iniziale della motivazione personale
Nel coinvolgere le persone in un percorso di solidarietà è importante avere consapevolezza del loro "orientamento motivazionale" e questo chiede un tempo di conoscenza, fatto di colloqui, dinamiche di gruppo, e osservazione sul campo, tutto al fine di proporre impegni adeguati al loro profilo. In questa fase è sicuramente utile la presenza di uno sguardo competente che sappia leggere i segnali espliciti ed impliciti che emergono dal comportamento delle persone. Va al contempo detto che raramente un gruppo di volontari può mettere in campo la presenza di un esperto che interagisca, conosca e orienti tutti i "nuovi volontari". Per questi motivi possiamo dire che pur essendo più adeguate le motivazioni intrinseche, stabili ed altruistiche, occorre mettere in conto che le persone nella fase iniziale del loro impegno, possano essere mosse anche da fattori estrinseci, meno stabili ed auto-
Al contempo occorrerà tenere valutare con attenzione il tipo di servizio da proporgli, optando che quelle attività che sono adeguatamente realizzabili anche in presenza di motivazioni spurie.
Attività una tantum o di breve durata, cioè che non comportano l’assunzione di impegni di lungo periodo, con il rischio che possano essere "lasciati a metà". La forma più leggera in assoluto è quella che richiede una presenza una tantum, alla quale cioè è possibile partecipare anche solo un’unica volta, senza dover assumere l’impegno di ritornare. Ad esempio a feste e gite è possibile partecipare anche solo un’unica volta, in modo utile e proficuo (mettendo a disposizione alcuni posti auto, partecipando attivamente ai vari momenti ludici, portando qualche vivanda per il pasto insieme).
Attività in gruppo, nelle quali la persona è impegnata insieme ad altri e quindi non svolge un ruolo indispensabile, né sul piano organizzativo, né -
Attività di tirocinio, in cui il nuovo volontario è invitato, per un periodo iniziale più o meno lungo, semplicemente affiancare altri volontari più esperti.
Abbassare la soglia della capacità richiesta
Esplorando il tema delle capacità (abilità, attitudini, competenze, esperienze) occorre valutare attentamente questi elementi se si intende proporre alle persone il coinvolgimento nelle attività che gli sono maggiormente "congeniali". In quest’ottica, abbassare la soglia, non significa proporre attività genericamente semplici, ma attività che chiamino in campo i "punti di forza" delle persone e che, al contempo, non ne sollecitano i "punti deboli". Anzi l’esperienza mostra che l’ideale è proporre alle persone attività -
A tal fine può essere utile distinguere due macro-
Le capacità specifiche, cioè connesse allo svolgimento di particolari compiti (aiutare un ragazzino a recuperare un debito formativo in matematica richiede che il volontario abbia una buona conoscenza della materia, realizzare un laboratorio di scultura richiede il possesso di specifiche doti artistiche e conoscenze tecniche, ...).
Le capacità generali, cioè: capacità organizzative, capacità relazionali, capacità comunicative, ... Fermo restando il discorso dell’abbinamento attività/capacità è opportuno evitare di proporre a coloro che sono alle prime armi attività che richiedono capacità poco diffuse, quali ad esempio quella di stare in situazioni potenzialmente imbarazzanti (parlare in pubblico, approcciare persone estranee, ...) o la capacità di far fronte a situazioni o comportamenti problematici o, addirittura, sconvenienti (comportamenti devianti, anormali, manipolativi o, anche, semplicemente "disorganizzati" che bambini, ragazzi e famiglie in difficoltà potrebbero mettere in atto), o capacità di far fronte all’ignoto (meglio ad esempio proporre, all’inizio, l’impegno a favore di persone già note -
Intreccio tra impegno solidale e responsabilità personali
Strettamente connesso con il discorso dell’abbassamento della soglia di accesso è quello dell’intreccio positivo tra l’impegno solidaristico e le responsabilità (familiari, civiche, ...) o gli interessi (culturali, sportivi, ...) delle persone coinvolte.
Occorre liberarsi dall’idea che colloca il "volontariato" in un ambito completamente "altro" rispetto alle attività connesse alla vita personale, familiare, civile. Il rischio è che questo tipo di solidarietà sia sempre meno abbordabile per l’ampia platea di persone e famiglie che dedicano tutte le loro energie a fronteggiare le varie responsabilità a cui sono chiamate. C’è il rischio cioè che il volontariato e la solidarietà siano pensati come qualcosa per persone benestanti, per gente che "dopo aver risolto i suoi problemi, dona agli altri un po’ del suo surplus di benessere". È possibile pensare ad una solidarietà diffusa solo se essa cala nella quotidianità delle persone comuni, miscelandosi ai loro impegni, problemi, interessi.
In tal senso sono più facilmente proponibili le seguenti attività.
Attività intrecciabili con le responsabilità familiari: attività nelle quali il volontario può partecipare coinvolgendo i propri familiari. Ad esempio:
l’organizzazione di attività di animazione per bambini e ragazzi permette di portare con se i propri figli. Meglio ancora se l’animazione è strutturata in modo tale da permettere la partecipazione di diverse fasce d’età, il che favorisce la partecipazione di persone con figli di età diverse;
le famiglie con figli frequentanti le scuole elementari e medie ai quali già dedicano attenzione nella realizzazione dei compiti scolastici pomeridiani, saranno più facilmente disponibile a "far vedere i compiti" a bambini coetanei dei loro figli;
chi deve già accompagnare i propri figli a scuola sarà facilitato nel "passare a prendere" anche un altro bambino frequentante la medesima scuola o una scuola vicina. Idem per la partecipazione dei figli alla Santa Messa domenicale o al catechismo pomeridiano;
chi deve già fare regolarmente la spesa al supermercato di quartiere sarà facilitato nel farla anche per un’anziana sola, specie se abita nelle vicinanze;
la realizzazione di attività che non richiedono il possesso di una particolare competenza né la partecipazione continuativa, permette alle persone di coinvolgere -
un esempio particolare, non diffuso ma assai interessante, è quello di provare ad intrecciare il volontariato con l’invito alle famiglie (comprese quelle solidali) a partecipare attivamente alla realizzazione dei percorsi di catechesi per l’iniziazione cristiana dei figli. In alcune parrocchie sono infatti in sperimentazione forme che chiedono ai genitori di essere presenti e di prendere parte attiva negli incontri di catechesi dei figli, svolgendo ruoli complementari a quello praticato dai catechisti, impegnandosi poi a curare alcuni approfondimenti domestici. Ebbene, in queste forme di "catechesi allargata", le famiglie solidali, oltre a coinvolgersi -
Attività intrecciabili con le responsabilità civili. Ad esempio l’impegnarsi nel coinvolgere bambini e ragazzi nella cura di uno spazio comune (un giardino pubblico, una piazza, ...) permette di perseguire contemporaneamente due obiettivi: la solidarietà verso i minori coinvolti; il miglioramento dell’ambiente di vita della comunità locale. Ugualmente positivo potrebbe essere l’impegnarsi in attività solidaristiche a favore di altre categorie di bisogno, quali gli anziani, i disabili, le popolazioni dei Paesi in Via di Sviluppo.
Attività intrecciabili ai propri impegni lavorativi. Ad esempio ad una persona che gestisce un asilo nido sarà facile chiedere di seguire un bambino per alcune ore diurne portandolo con sé all’asilo.
Attività intrecciabili con interessi artistici, culturali, naturalistici, atletici, ... Ad esempio organizzare iniziative rivolte sia ai grandi che ai piccoli (laboratori artistici per la famiglia, piccole attività sportive, passeggiate culturali e naturalistiche, laboratori di cucina, laboratori di giardinaggio, ...) permette di coinvolgere bambini, ragazzi e famiglie in iniziative interessanti anche per i volontari che le organizzano.
Il cammino formativo
Favorire l’abbassamento della soglia, proponendo alle nuove famiglie solidali attività semplici e poco intense, non significa rinunciare alla "crescita della disponibilità, della motivazione, delle capacità". Come suggerito dallo psicologo ungherese Mihaly Csikszentmialyi, se all’inizio è bene non proporre "sfide troppo elevate" che potrebbero spaventare (generando frustrazione, ansia e ... indisponibilità o disimpegno), occorre anche considerare che percorsi che coinvolgono a livelli troppo bassi le abilità delle persone sortiscono l’effetto di produrre noia e apatia (e, nel tempo, disimpegno). Se, dunque, la facilità di accesso è una buona condizione iniziale, occorre sempre mettere in conto la realizzazione di un cammino di maturazione dell’azione solidale.
Quali sono le condizioni e le attenzioni per favorire tale maturazione? Molte possono essere le considerazioni da fare a tale riguardo. Tra queste richiamiamo le tre piste ordinarie, più diffuse, su cui procedere.
La formazione, iniziale e permanente, delle famiglie solidali. È la prima condizione, all’impegno pratico occorre affiancare la riflessione sull’impegno stesso. Le modalità concrete di realizzazione dell’accompagnamento formativo variano molto in base ai contesti, al grado di coinvolgimento delle famiglie solidali, alla loro eventuale partecipazione a gruppi parrocchiali o ecclesiali ed ai contenuti e modalità della formazione umana e spirituale che in questi contesti viene svolta, ... Senza entrare nel merito di tutte le diverse possibilità e articolazioni, è utile sottolineare che le aree sulle quali le famiglie hanno bisogno di formarsi e riflettere sono:
la dimensione catechetica che, accompagnando le famiglie nell’approfondimento delle motivazioni spirituali dell’impegno solidale, punta a favorire l’integrazione fede-
gli aspetti relazionali dell’agire insieme agli altri e dell’essere per gli altri;
i temi propri dell’azione sociale svolta: elementi di psicopedagogia, politiche sociali e servizi pubblici, metodologia dell’azione solidale e implicazioni legali.
La formazione deve toccare anche il tema della "qualità ed efficacia" dell’attività svolta, con momenti di confronto e analisi dei punti di debolezza e delle modalità di superamento di tali limiti. È importante precisare che la formazione è cosa ben diversa dall’indottrinamento e che anche le migliori relazioni accademiche hanno il limite di informare molto ma di "formare" poco. Occorre in altri termini pensare ad attuare forme efficaci di formazione che miscelano momenti frontali con forme interattive, dinamiche di gruppo e riflessione su situazioni concrete, fino a giungere al cosiddetto "imparare facendo" (learning-
La condivisione, con le altre famiglie sodali, con le quali è necessario che nasca una vera e propria amicizia, fatta di condivisione e reciprocità.
Il servizio svolto, se adeguato alla famiglia solidale e ben condotto dai responsabili, ha esso stesso l’effetto di produrre la maturazione della disponibilità. Saranno importanti a tal fine un buon monitoraggio da parte dei responsabili, periodiche verifiche intermedie con il volontario e le altre persone coinvolte. Quest’approccio della pedagogia dei fatti, cioè dell’educare facendo e facendo fare esprime il proprium della "pastorale della carità", che punta a stimolare le famiglie solidali, e tutte coloro che non sono ancora attive ma che potrebbero diventarlo, valorizzando le opere che già si compiono e proponendone di nuove.
Vi sono poi altri elementi rilevanti sia verso le famiglie "alle prime armi" che con coloro che da tempo sono famiglia solidali. Li elenchiamo di seguito.
La celebrazione liturgica, innanzitutto, la quale insieme alla catechesi e alla carità forma la triade su cui si fonda la missione della Chiesa. Non si tratta però «di appiccicare alla celebrazione anche l’appendice di qualche opera buona, ma piuttosto di provare a motivare, alla luce di quel che la Chiesa celebra, la saldatura tra la lode e l’impegno, il servizio a Dio e il servizio agli uomini e alle donne del nostro tempo, i doni che dal Signore riceviamo e la gioia-
La testimonianza, offerta da famiglie solidali più avanti nell’esperienza, con motivazioni stabili ed incentrate sulla logica del dono, favorisce la maturazione della disponibilità dei nuovi volontari. È la forza di una testimonianza vera e ricca di frutti a farsi riconoscere dal cuore delle persone. La disponibilità cresce quando le famiglie vedono altre famiglie concretamente impegnate nella cura di figli non propri e nell’aiuto a famiglie che non gli sono parenti. Non però testimoni distanti e irraggiungibili, ma amici vicini, in relazione significativa con i nuovi volontari ai quali il desiderio del bene viene trasmetto attraverso quello che don Oreste Benzi definitiva "trapianto vitale", passaggio di valori tra persone in relazione.
La profezia, cioè la capacità di alcuni "maestri" di saper leggere i segni dei tempi e di offrire ai volontari letture profonde e stimoli preziosi circa il senso ultimo dell’agire solidale. Importante in tal senso favorire l’incontro tra i volontari e queste persone, invitandole ad intervenire in qualche occasione formativa, o partecipando ad eventi, corsi, ... in cui sono coinvolte.
L’incontro diretto con la sofferenza degli indifesi, con gli "ultimi, piccoli, poveri". Sono incontri che, spesso, in prima battuta, sconcertano, disorientano, mettono in crisi ma che, al contempo «rivelano il volto di Dio» e aiutano le famiglie cristiane «a comprendere meglio il Vangelo. Poveri e Vangelo si illuminano a vicenda» (Caritas Italiana, Lo riconobbero allo spezzare il pane, 2). Se queste esperienze sono accompagnate da altri volontari più esperti, che aiutano il nuovo volontario a farne tesoro, e da un adeguato cammino formativo e spirituale, diventano una spinta forte verso una maggiore e più autentica disponibilità, meno limitata da chiusure personali, timori e posizioni di comodo.
La rete con esperienze analoghe, l’incontro con gruppi di volontari impegnati su attività analoghe in altre zone, specie se più avanti nell’esperienza, permette di prendere spunti preziosi e favorisce un rinvigorimento della motivazione, oltre ad offrire, talvolta, concrete possibilità di sinergia e collaborazione.
Tutto quanto sopra può accompagnare al crescita della motivazione e della disponibilità delle persone. Sarà importante miscelarlo con sapiente equilibrio, trovando il modo di "invitare senza pressare", rispettando cioè i tempi e la libertà delle persone. Un po’ come avviene nel "corteggiamento" in cui la giusta misura è quella di colui si rende presente senza essere invadente.
Solidarietà familiare e pastorale parrocchiale integrata
Il percorso parrocchiale di promozione della solidarietà familiare, come ogni percorso di "animazione alla carità" deve poter «comprendere e fondere in una circolarità dinamica le tre dimensioni fondamentali della pastorale e della vita cristiana: annuncio, celebrazione e testimonianza» (CEI, Con il dono della carità dentro la storia, 15).