Esperienze Familiari - Nuovi Cortili - UNREGISTERED VERSION

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Esperienze Familiari

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Testi tratti dal Libro "Parrocchia e Solidarietà Familiare: sacramento di comunione" di Marco Giordano, Punto Famiglia Editrice, 2014  (per ricevere il testo completo del Sussidio)

Due famiglie per Luca

Ieri ho incontrato due famiglie solidali: Rosa e Roberto, Franco e Adele. Gli ho chiesto di raccontarmi la loro esperienza. "Sapevo che cos’era la solidarietà familiare - racconta Rosa - ed era un’esperienza che la mia famiglia aveva intenzione di fare. In casa siamo tre: io, mio marito Roberto e mia figlia che oggi ha 15 anni. L’occasione di realizzare questo nostro desiderio si è presentata attraverso la Caritas e l'Ufficio Famiglia della Diocesi di Avellino. Conoscevo già il responsabile del progetto, è stato un insegnante di mia figlia. Grazie a lui abbiamo iniziato un anno fa questo percorso di formazione per famiglie solidali, svoltosi nella nostra parrocchia".
Franco e Adele, al contrario, non sapevano molto di solidarietà familiare, ma con entusiasmo hanno accolto l'invito a partecipare al percorso formativo che ha dato loro tutte le informazioni necessarie. Terminato il corso, dopo alcuni mesi, è arrivata la proposta: c'è bisogno di aiutare il piccolo Luca.
Quando chiedo di raccontarmi il primo incontro con Luca, sorridono guardandosi negli occhi, è evidente che quest’esperienza in comune ha rafforzato i vincoli di amicizia e stima tra le due famiglie. Poi Franco ricorda «L’incontro è avvenuto qui in parrocchia, quando Luca è entrato è rimasto impietrito perché eravamo tutti seduti dietro a un tavolo, vedendo la sua difficoltà Rosa ha esordito: "Non siamo qui per fucilarti ma per esserti accanto con grande affetto!". Quella sera eravamo in nove, sicuramente lo abbiamo intimorito, ma è bastata quella battuta a rompere il ghiaccio. Quando il pomeriggio del giorno dopo Luca è andato a casa di Rosa e Roberto tutto è stato molto spontaneo e tranquillo».
Luca vive un una casa famiglia della zona. Ha qualche problema relazionale anche se è un ragazzo estremamente socievole, un po’ restio a raccontare il suo passato che ogni tanto emerge da qualche frase buttata lì.
Frequentare queste due famigli offre a Luca l’occasione di intessere relazioni al di fuori di quelle che già ha, e il ragazzo manifesta di apprezzare moltissimo questa chance. Il supporto offerto è un aiuto scolastico ma ha alle spalle una precisa strategia, le due famiglie sono impegnate rispettivamente negli Scout e nell’ACR e l’obiettivo perseguito, attraverso questo appoggio pomeridiano, è quello di inserire il piccolo Luca in un contesto sociale sano, che possa aiutarlo nel suo percorso di crescita.
Rosa racconta che Luca arriva a casa sempre in anticipo, si preoccupa di portare i quaderni e i libri, sembra quasi uno scolaro perfetto quando invece a scuola ha qualche problema a causa della sua eccessiva vivacità, segno forse della difficoltà che il ragazzo sta vivendo.
"È molto contento – aggiunge Rosa - quando mia figlia gli va incontro per accoglierlo in casa, gli dà qualche dritta o qualche suggerimento per i compiti".
Un giorno è a casa di Rosa, due giorni a casa di Franco e Adele la cui figlia, sensibile e aperta alle problematiche dei ragazzi, si è offerta di seguirlo personalmente nello studio. Gli altri giorni è impegnato con attività sportive.
"Stiamo facendo quello che ci è stato chiesto – mi confidano Rosa e Adele - se ci fosse la necessità di fare di più, noi siamo pronti e disponibili, il nostro desiderio è quello di essere famiglie solidali verso coloro che ne hanno bisogno".


Il desiderio di fare di più

Cresciuta con sentimenti cristiani, ho sempre sentito il desiderio di fare qualcosa di concreto per il bene del prossimo. Già la mia famiglia si era presa l’impegno di inviare ogni mese una somma di danaro ai missionari, ma questo non faceva tacere in me quella vocina che mi ricordava "Non chi dice Signore, Signore entrerà nel Regno dei Cieli, ma chi fa la volontà del Padre mio!". Come facevo io la sua volontà? Avevo da pensare al marito, ai figli, alla casa, al lavoro, agli impegni in Parrocchia, ma mi sembrava di fare tutto questo solo per me. Volevo dare più amore in modo reale ai bisognosi. Mi avevano sempre commosso le storie di quei bambini che crescevano negli istituti, così incominciai, d’accordo con mio marito Giacomo, ad andare a prendere, per i fine settimana, una bambina che cresceva in un istituto. Divenuti in tal modo più sensibili al problema dell’affido familiare iniziammo a frequentare un gruppo di famiglie affidatarie. Il passo fu breve: presto un assistente sociale del nostro paese ci contattò per sapere se volevamo prendere un bambino in affido a tempo pieno. Si trattava di un’esperienza che avrebbe coinvolto tutta la famiglia per cui, già decisi noi, proponemmo la cosa anche ai nostri due figli maschi, Roberto e Antonio, che allora avevano rispettivamente 15 e 17 anni. In principio si dimostrarono contrari: "Fate tutto il bene che volete, ma in casa lasciateci in pace!" fu la loro prima risposta. Ma bastarono due fine settimana di prova con il bimbo a casa nostra, e anche i loro cuori si aprirono! Non ci fu bisogno di aspettare il terzo fine settimana perché Andrea ormai era già con noi. Aveva 10 anni circa e doveva frequentare la quinta elementare. Per noi fu un ricominciare un po' tutto perché i nostri figli ormai erano più grandi e indipendenti. Andrea veniva da una storia triste come quasi tutti quelli che finiscono in affido. La mamma giovanissima e lontana, completamente assente.
Il padre con una nuova compagna dalla quale aveva avuto un altro figlio. Una nonna ancora giovane, ma con altri figli non sistemati e problematici.
Ci trovammo così questo bambino che avrebbe potuto essere tutto nostro. Ma noi, consapevoli dell’importanza della famiglia d’origine, abbiamo sempre rispettato la sua provenienza e ci siamo impegnati, Giacomo ed io, a farlo incontrare, periodicamente, sia con il padre che con la nonna.
Molti i viaggi in automobile perché la famiglia è in un paese distante dal nostro una cinquantina di chilometri.
Spesso per lui ad ognuno di questi viaggi, iniziati con gioia, si rinnovava alla fine l’antica sofferenza; "Perché mio padre non mi vuole tenere con sé?". Questo il risentimento che si leggeva negli occhioni scuri di Andrea quando eravamo sulla via del ritorno! Il ragazzo è cresciuto con noi, per otto anni, come un figlio. Gli abbiamo trasmesso valori cristiani e regole di vita e gli abbiamo dato un’istruzione per cui ora può fare dei buoni progetti per l’avvenire. Certo non è stato facile perché la vita condotta, in stato di quasi abbandono, nel periodo precedente all’affido presso di noi, ha comunque lasciato i suoi segni. Un carattere molto chiuso, all’inizio non sapevo mai se l’amore che gli davamo era ricambiato almeno un po'. Anzi, spesso ci combinava qualche "cattivo servizio". Noi lo perdonavamo sempre, ma ci faceva soffrire molto quella sua tendenza alla slealtà che rendeva difficile il fidarsi di lui. A volte arrivavamo a chiederci: "Ma chi ce lo fa fare? Signore lo facciamo per Te, ma quanto ci costa! Cosa possiamo fare di più? Gli diamo tutto e non riceviamo quasi nulla, né una parola affettuosa, né un segno di riconoscenza!". Eppure Andrea di noi si fidava e ora capisco che questo è ciò che conta. Fu ancora più difficile quando Andrea divenne adolescente, giunse al punto di prendere le cose in casa senza nemmeno chiederle.
Di fronte ai nostri rimproveri si chiudeva sempre più. Ebbi momenti di grande sconforto, ma Giacomo, mio marito, ripeteva: "Coraggio, vedrai che tutto quello che abbiamo seminato prima o poi darà i suoi frutti!". Raggiunta la maggiore età, Andrea, forse perché ormai certo del nostro continuo perdono, ce ne ha combinate ancora di grosse.
Così è accaduto quello che avevamo sempre temuto, Antonio, nostro figlio maggiore, ha preso in mano la situazione ed ha detto basta. "Andrea è ora che ti prenda le tue responsabilità: se non vuoi rispettare le regole della famiglia, allora, renditi indipendente!". Andrea se ne andò a lavorare lontano durante le vacanze scolastiche. Sembrava che tutto fosse crollato, avevamo perso. Ma a volte, pur perdendo molte battaglie, si vince lo stesso la guerra.
È capitato a noi. E a lui.
Il suo era stato un atteggiamento di sfida, forse voleva dimostrare qualche cosa che noi non capivamo.
Voleva sapere chi era veramente: il figlio di questa nostra rispettabile famiglia o il figlio della sua, ben più sfortunata?
Così ora, a 19 anni, non vive più con noi. Ma l’irrevocabilità della nostra decisione lo ha reso improvvisamente maturo.
Adesso studia e lavora. Provvisoriamente è ospite della nonna, ma appena possibile se ne andrà a vivere da solo.
Dentro si porta tutto il nostro mondo, più la sofferenza del suo. È quasi un uomo ormai. Spesso viene a trovarci e ci ha fatto capire che ci vuole bene, si confida con noi ed è più affettuoso.
A questo punto avremmo potuto dire basta all’esperienza dell’affido, invece ci siamo riproposti.
Roberto, il nostro secondo figlio, che ancora vive in casa, ci ha pregati: "Che questa volta sia una femminuccia!". Ed eccoci qui, di nuovo alle prese con questa stupenda esperienza. L'Associazione Progetto Famiglia, di cui negli anni siamo divenuti membri, non ha se l'è fatto ripetere due volte. In accordo con i servizi sociali ci hanno chiesto di accogliere Diana, una bambina di 6 anni, classe prima elementare! Siamo di nuovo a fare i compiti con lei e ci sembra di ricominciare tutto come quando i nostri figli erano piccoli. Abbiamo ancora tanto amore da dare, Signore aiutaci tu!

Io ci sono!
All’inizio di quest’anno un’amica ha segnalato a me e ai miei amici dell'Associazione Famiglie per l’Accoglienza di Milano la situazione di una mamma con due figlie piccole, che stavano tutto il giorno in ospedale ad accudire il padre gravemente ammalato. Ho chiesto alla scuola materna privata di mia figlia se potevano accettare queste due bambine anche se l’anno scolastico era già iniziato ed anche se non avrebbero potuto pagare la retta. E la risposta è stata immediata e positiva. Così ho iniziato un "viaggio" che mai avrei immaginato. Io semplicemente le passavo a prendere alla mattina, visto che abitavano lungo la mia strada, e le andavo a prendere a pomeriggio, visto che, comunque, dovevo andare a prendere mia figlia all’asilo.
Non ho fatto gesti diversi da quelli che già facevo normalmente.
Poi queste bimbe le tenevo un paio d’ore nel pomeriggio finché la mamma rientrava dall’ospedale verso sera, per la grande gioia delle mie figlie perché si sono molto affezionate a loro trovando delle nuove amiche.
Questa situazione ha fatto sorgere una gran curiosità nella scuola, tanto che molte persone hanno iniziato a farmi domande sulle ragioni per cui lo facevo, se era faticoso, se era impegnativo, e quando mi dicevano che "ero brava", rispondevo sempre che non facevo nulla di eccezionale, semplicemente portavo e andavo a prendere da scuola mia figlia insieme a due sue amiche.
Una cosa fattibile per chiunque. Ed è stato allora che alcune persone hanno iniziato a parlarmi dei loro desideri, della loro disponibilità, della loro volontà di rendersi partecipi a loro volta di una esperienza simile. Io mi sono sentita onorata di essere diventata un po’ la "custode" di questi desideri, che a volte noi stessi consideriamo piccoli ma che in verità sono grandi.
Era come aver davanti a me a volte delle "piccole piantine" e a volte "delle piante già più radicate" che mi chiedevano di essere custodite ed aiutate a crescere. Per cui quando dopo un certo tempo ho saputo di un bimbo con disabilità che il sabato pomeriggio aveva bisogno di essere accudito, è stato facile chiederlo in giro, perché si era già creato un "terreno fertile".
La stessa cosa per una bimba marocchina che aveva bisogno di essere ogni tanto accompagnata a scuola di mattina o portata a casa il pomeriggio, perché la madre aveva dei turni lavorativi che non sempre le consentivano di organizzarsi. C’è stata da subito una gran disponibilità, sorprendente e bellissima. Quando un giorno sono tornata a scuola ad accompagnare un’altra bimba, una maestra è venuta nel corridoio a salutarmi e mi ha detto: "È un bel vedere".
Da questa esperienza ho capito alcune cose molto semplici. Non importa che tipo di scuola si frequenti, che genere di genitori ci sono nella classe, o che genere di idee si possono avere, ciò che fa la differenza è che "uno" si proponga, che una persona cominci a dire "io ci sono", e questo fa cambiare le cose, insieme al fatto che un volto lieto e libero è desiderabile da tutti, grandi o piccoli, italiani o stranieri, maschi o femmine. Non c’è strategia di marketing o campagna pubblicitaria che possa suscitare uno stupore e una curiosità maggiore come questo.

Come avrei potuto crescere un bambino da sola?
Sono nata in Cile 31 anni fa. I mie genitori sono anziani, io sono l’ultima di 5 fratelli. Per cercare un lavoro, 10 anni fa, sono arrivata in Italia ospite di cugini. Ho frequentato un corso per operatrice socio sanitaria, alternando alla scuola lavori di pulizie presso alcune famiglie. Dopo 4 anni dal mio arrivo, ho conosciuto un mio connazionale col quale sono andata a vivere trasferendomi a Milano dove ho trovato lavoro presso una clinica. Tutto sembrava andare bene fino a quando non sono rimasta incinta. Il mio compagno non voleva un figlio, io non potevo nemmeno pensare di liberarmene. Sono rimasta sola. Il lavoro era sicuro, ma come avrei potuto crescere un bambino sola? I miei parenti mi hanno aiutata, ma il loro disappunto per le scelte fatte, rendeva difficile la relazione. Ero spaventata, ma certa della mia decisione. La gravidanza procedeva bene. Un giorno, in ospedale per un controllo, ho incontrato una signora dalla quale ero stata per le pulizie. Ho confidato inspiegabilmente a lei tutte le mie ansie. Maria ha affettuosamente accolto la mia disperazione. Era lei con me quando 1 mese più tardi è nato il mio bambino. Maria mi ha anche ospitato nella sua casa per i primi mesi di vita di Riccardo; tutta la sua famiglia mi ha accolta, ma era una situazione provvisoria. Grazie al calore di questa famiglia e al concreto aiuto ricevuto, dopo tre mesi, mi sono trasferita in una piccola casa, vicina al lavoro, dove avrei potuto crescere mio figlio.
Al rientro al lavoro, che richiede una disponibilità su turni, gli orari del nido di Riccardo non mi permettevano di sostenere i turni serali. La mia responsabile mi aiutava, cercando di assegnarmi solo turni mattutini, ma le colleghe si lamentavano e la cosa non poteva andare oltre. A chi potevo lasciare il mio bambino? I mie parenti abitavano lontano, la mia amica Maria ormai pure. Ho pensato di chiedere aiuto ai miei genitori che mi hanno invitato a portare Riccardo da loro in Cile. In quel momento anche a me è sembrata l’unica soluzione possibile. Sono partita col piccolo. Dopo un breve periodo sono rientrata in Italia per non rischiare di perdere il lavoro.
È stato il momento più brutto della mia vita, nulla può spiegare cosa si prova nel lasciare il proprio figlio per andare dall’altra parte del mondo non sapendo quando lo si rivedrà. L’ho abbandonato, temevo che non si sarebbe dimenticato di me.
I mesi seguenti sono stati devastanti, solo la vicinanza di Maria mi ha aiutata a non lasciarmi andare. Per me non era possibile continuare così. Sono tornata a prendere Riccardo che nel frattempo aveva raggiunto l’età per la scuola materna. Ma si riproponeva il problema: a chi lasciare il piccolo mentre io ero al lavoro? Per qualche tempo ho pagato una ragazza inesperta, le esperte non potevo permettermele, perché stesse con Riccardo, ma io non ero tranquilla. Tra affitto e un figlio da crescere, arrivare a fine mese era difficile col mio stipendio. E continuavo ad avere solo Maria. Riccardo intanto cresceva sano, ma irrequieto, disubbidiente. Facevo fatica a gestirlo, ero stanca. Maria mi ha consigliato di chiedere aiuto alla Caritas parrocchiale. Avevo paura, soprattutto perché le gentili signore della Caritas mi hanno messo in contatto con l'Associazione AiBi - Amici dei Bambini che si occupa anche di affido familiare; Maria mi tranquillizzava, io temevo che mi portassero ancora via Riccardo.
Quest’associazione mi ha presentato una famiglia che avrebbe potuto aiutarmi. Una famiglia con figli grandi, la moglie Lucia casalinga, il papà Roberto pensionato, i due figli studenti universitari. Non è stato facile lasciare mio figlio a degli sconosciuti, per quanto mi sembrassero bravissime persone. Stranamente in quel momento mi sono sentita ancora più sola: dovevo ricorrere ad estranei per non dover abbandonare mio figlio.
Ormai sono 2 anni che Riccardo trascorre alcuni pomeriggi la settimana con Lucia e Roberto, io ora so che posso fidarmi di loro tanto che mi sento anche di condividere con loro le mie difficoltà. Riccardo è più tranquillo, ha trovato dei nonni. Io ho trovato amici che non mi giudicano, che mi sostengono perché io possa stare con Riccardo più serenamente. Oggi non posso ancora permettermi di dare a mio figlio il meglio, ma sono certa che a Riccardo non mancherà mai l’amore della mamma e il calore di una famiglia.

Uno sguardo pieno di gratitudine
Occhi azzurri, capelli biondi raccolti in una semplice coda di cavallo, spinge un passeggino con un bimbo di un anno, per mano ne ha un altro di circa tre anni e il suo stato di gravidanza è evidente. Così vedo Marta per la prima volta mentre entra nel portone a fianco al mio: è la mia nuova vicina di casa.
Il vederla così semplice e talmente riservata che a fatica risponde al mio saluto, provoca il mio desiderio di conoscerla meglio. Conosco questo tipo di desiderio che nasce dal cuore e non lo censuro, perché la mia storia mi ha insegnato quanta bellezza può originare.
Vivo in un piccolo paese ed è facile raccogliere informazioni: la Superiora delle Suore di Carità, Suor Agostina, segue Marta da quando è arrivata; mi dice che Marta è polacca mentre il suo compagno è un tunisino sempre disoccupato o con piccoli lavori in nero: sono poverissimi.
Suor Agostina conosce la nostra appartenenza ad un gruppo di famiglie solidali, sa del lungo affido di Simona e Fabrizio e le tante storie di semplici accoglienze che ci hanno coinvolto, perciò trova naturale chiederci la disponibilità a dedicare un po’ del nostro tempo a questa ragazza così sola, così bisognosa di tutto e così sprovveduta anche nel suo "mestiere" di mamma.
Dire un "sì" ci sembra la cosa più naturale.
Ed è così che comincia questa nuova avventura piena di incognite, nella quale ci troviamo immersi nella consapevolezza dei nostri limiti, ma pieni di entusiasmo.
Nasce il terzo bimbo, ma arriva lo sfratto, perché non riescono a pagare l’affitto. C’è un disperato bisogno di casa e di lavoro, ma anche di sostegno a Marta che si affida totalmente a noi, tanto è grande il suo bisogno di essere sostenuta ed aiutata.
Io e mio marito riconosciamo che non possiamo farcela da soli. Insieme a Suor Agostina, e all'Associazione Famiglie per l'accoglienza, di cui faccio parte, cominciamo a costruire una rete di rapporti che coinvolgono i servizi sociali, la Parrocchia, la Caritas, il Banco Alimentare e… tante persone che, sensibili alla storia di Marta, offrono tanto: indumenti, giocattoli, latte, sportine di spesa. Commuovono questi piccoli gesti.
Finalmente, fra le case comunali, si trova un’abitazione decorosa ed adeguata, ma Marta ha un’altra sorpresa: aspetta il quarto bimbo e vuole assolutamente abortire.
Ogni nostra parola non riesce a farla desistere dal suo doloroso progetto, ma è piena di dubbi ed incertezze, così passano i primi tempi e quando si reca in ospedale l’intervento le viene negato, perché scopre di essere già al 4° mese di gravidanza. Vediamo questa mamma combattuta tra disperazione e sollievo, perciò cerchiamo di farle molta compagnia per darle una speranza di bene anche in questa situazione così difficile.
Nasce una bellissima bambina bionda e, con il progetto "Gemma" del Centro di Aiuto alla Vita, si attiva un aiuto economico piccolo, ma provvidenziale.
Da quel primo incontro ad oggi sono passati sei anni. Marta è un’altra persona, capace di seguire i propri figli che ormai frequentano la scuola, l’abbiamo assunta come colf e nelle ore libere svolge lavori di pulizia anche presso altre famiglie, è sicura di sé e più padrona della lingua italiana.
Molte volte in questi anni mi sono chiesta che cosa ha voluto dire per la mia famiglia quel "sì" detto tanto tempo fa.
Devo riconoscere che soprattutto all’inizio è stato molto faticoso accettare le tante diversità di questa famiglia: religione, lingua, educazione, abitudini, modalità di relazionarsi, etc.
Nel tempo abbiamo imparato anche a prendere coscienza dei nostri limiti e delle nostre incapacità, perciò siamo stati in grado di chiedere tutti gli aiuti necessari, e questo ci ha insegnato ad avere sempre uno sguardo pieno di gratitudine e di speranza in ogni momento della giornata.

Siamo una famiglia ormai adulta
I nostri figli sono universitari. Mio marito è in pensione, io sono casalinga. Siamo sempre stati legati alla nostra parrocchia, dove io sono cresciuta e dove abbiamo avuto la fortuna di poter crescere i nostri figli. Sia io che mio marito fin da giovani siamo stati impegnati in attività di volontariato in ambito educativo e sportivo, comunque a contatto con bambini e ragazzi. Lo stesso stanno facendo i nostri figli.
Avendo più tempo a disposizione, l’impegno in parrocchia è aumentato ma in modo inaspettato. Un paio di anni fa, un’amica attiva nella Caritas parrocchiale mi ha raccontato di un progetto di "prossimità" che in collaborazione con l'Associazione AiBi - Amici dei Bambini che si occupa di accoglienza familiare di minori si stava realizzando; l’obiettivo era evitare che dei bambini venissero allontanati dalle famiglie non in grado di occuparsi di loro, sostenendo le famiglie in difficoltà nelle piccole questioni quotidiane. Immediatamente d’accordo con mio marito, mi sono informata presso l’associazione per capirne di più. Sostanzialmente alle famiglie disponibili veniva semplicemente chiesto di sostenere, con piccole impegni, dei bambini che per vari motivi non potevano avere il totale sostegno dei genitori. Si trattava quindi di accudire un bambino dall’uscita di scuola all’ora di cena, piuttosto che aiutarlo nei compiti o nelle attività extrascolastiche, piuttosto che altri impegni di questo genere. La nostra disponibilità è stata pressoché immediata, in fondo ci veniva chiesto di fare ciò che abbiamo sempre fatto con i nostri nipoti o con figli di amici.  Altrettanto immediata è stata la proposta da parte dell’associazione: si trattava di un bimbo la cui mamma sola, per motivi di lavoro, non riusciva a prendersi cura di lui in modo adeguato dovendo chiedere aiuto ad amici o parenti sempre diversi non potendo permettersi una baby-sitter fissa.
Non è stato così facile stabilire un rapporto di fiducia con la mamma, molto più semplice con il piccolo Riccardo, bambino vivace, forse troppo, gioioso ma poco disposto alle regole. Con il sostegno pedagogico che l’associazione ci ha assicurato, pian piano siamo riusciti ad instaurare un bel rapporto con il piccolo ma anche con la sua mamma che pian piano ha capito che il nostro supporto sarebbe stato discreto e soprattutto che l’obiettivo era sostenere il suo ruolo di mamma. Naturalmente anche da parte nostra è stato necessario scendere a compromessi nel rispetto proprio del ruolo della mamma e, non meno, delle differenze culturali.
Oggi Riccardo è per noi un nipotino e la sua mamma una terza figlia a cui, con estrema delicatezza, cerchiamo di dare consigli, appoggio e affetto. Anche i nostri figli sono stati coinvolti dalla simpatia di Riccardo, spesso dedicano del tempo al piccolo e le cene sono uno spasso. Riccardo è diventato la mascotte del nostro gruppo di amici. L’associazione ci sostiene nelle piccole difficoltà di gestione della relazione con questa famigliola. Riccardo cresce, tra poco inizierà la scuola elementare. La sua mamma sembra serena. E noi continueremo ad occuparci di lui. Siamo contenti che la nostra vita si sia riempita della gioia che Riccardo ci ha portato. Un piccolo sforzo in cambio di tanto affetto.

Storie di passione
Siamo sposi da 32 anni e ad un certo punto del nostro matrimonio, circa 20 anni fa nel riconoscere il bene che avevamo: una casa, un lavoro, una figlia, è nata in noi la curiosità di capire quale era il nostro posto in questa vita. Dalle istituzioni ci è arrivata la sollecitazione all'affido, ci è sembrata una scelta di responsabilità e giustizia perché se nel mondo si muore di fame, di violenza, si muore anche di mancanza di cure amorevoli.
Siamo cresciuti in una parrocchia di campagna di circa 1000 anime, facendo catechismo, andando a messa, cercando di osservare i comandamenti  come ci hanno insegnato, ma  il senso del nostro percorso ci è stato dato nell'incontro con un prete operaio che durante i nove mesi di permanenza in parrocchia, ci ha mostrato il comandamento di Nostro Signore nell'amore che aveva verso la gente,  nella condivisione delle fatiche quotidiane di tutti, nelle parole e nei gesti pieni di misericordia, nella gioia del Vangelo. Ci ha mostrato una Chiesa che patisce e gioisce con i fratelli, dove siamo tutti figli  amati e prediletti; una Chiesa minore fatta di tante persone che vivono il loro carisma nella semplicità quotidiana, che portano le loro croci con dignità, che si vogliono bene, che si occupano gli uni degli altri.
La nostra prima esperienza risale a 15 anni fa quando ci è stata affidata una bambina di 5 anni che è rimasta con noi per quasi 2 anni. Siamo diventati di nuovo genitori affidatari di due fratelli di 10 e 7 anni che ci hanno atteso per tre anni in una comunità. L'affido è ancora in corso e in questi 10 anni siamo cresciuti insieme ... e da due anni e mezzo abbiamo con noi una ragazza di 15 anni.
Nell'affido, come nella vita, si intrecciano storie di passione che si concretizzano nei tanti sì che pronunciamo con generosità (e un po' di incoscienza): nel matrimonio, nel diventare genitori, nel diventare genitori affidatari, nell'essere disponibili a edificare il bene comune; poi è il bene che ci cambia e ci si ritrova a scegliere la propria condizione, nella libertà. Sono figli che portano nel  cuore una ferita dolorosa e noi siamo lì per curare, lenire, guarire forse non si potrà mai. Si intravede una nuova luce nella crescita buona, seppur difficile, di piccoli obiettivi raggiunti, seppur con fatica, di riconoscimento come padre e madre per il nostro prenderci cura senza nessun risparmio di energia, tempo, affetto; insieme alla nostra storia affidata a loro, al rispetto e all'accoglienza (quando è possibile) dei genitori che li hanno messi al mondo.

 
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