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Affido Familiare e Nuovi Cortili

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L’AFFIDO FAMILIARE: INTERVENTO DA "RIPOSIZIONARE"

La situazione dei minori "fuori famiglia".
I dati sui minori "fuori famiglia", diffusi dalle ultime ricerche del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, indicano la presenza di circa 30.000 bambini e ragazzi che vivono all'esterno del loro nucleo familiare. Di questi circa la metà sono inseriti in una comunità residenziale, un quarto vive con i parenti e il restante quarto in affidamento extra-familiare. Le indagine offrono un quadro dalle tinte scure, soprattutto quando evidenziano:

  • la prevalenza del ricorso all’inserimento dei minori nelle comunità piuttosto che in affido extra-familiare, … In pratica ogni tre minore che non vivono né con i genitori né con i parenti, due sono inseriti in una comunità e uno in affido. Anche se mancano dati di dettaglio non è errato supporre che solo una parte dei minori in comunità ha bisogno dello specifico intervento che questo offrono, mentre v’è la quota restante che avrebbe bisogno di un affidamento familiare ma non vi accede per l’insufficiente numero delle famiglie disponibili all’affido o per la mancata presenza o attivazione dei servizi preposti.

  • l’elevata percentuale degli affidamenti di lunga durata, segno di una diffusa difficoltà a sostenere le famiglie di origine. Circa la metà dei minori in affido lo è da più di 2 anni. Di questi il 50% è in affido da oltre 4 anni.

  • l’elevata percentuale degli affidamenti giudiziali rispetto a quelli consensuali. L’accoglienza è nella maggioranza dei casi una misura che si adotta senza l’adesione della famiglia. Restano dunque minoritari gli affidamenti consensuali che, invece, per il loro carattere preventivo e promozionale dovrebbero rappresentare la maggior parte degli interventi.

  • l’elevata percentuale degli allontanamenti disposti sulla base di provvedimenti d’urgenza (art.403 CC.). Sono circa un quarto del totale e in alcune regioni raggiungono la metà degli interventi. Assai ridotta è quindi la capacità di intervenire precocemente, prima che il disagio diventi emergenza. Gli interventi finiscono spesso con il diventare "tardo-riparativi".


Dov’è l’accoglienza diurna? Le indagini Ministeriali non rilevano il numero degli affidamenti diurni. A partire da uno sguardo "a campione" nei vari territori, emerge che salvo alcune zone di eccellenza, l’affidamento diurno sia pochissimo praticato, mentre dovrebbe rappresentare la via maestra, in quanto mira a prevenire l’allontanamento dei minori dalle loro famiglie. Ma quanti sono i bambini (o, meglio, le famiglie) bisognose di "accoglienza diurna"? Cioè  quanti sono i minori che, pur non venendo allontanati, abbisognano di interventi di sostegno educativo e affettivo-relazionale? Innanzitutto c’è da chiedersi se vi siano minori "non allontanati" che avrebbero bisogno di esserlo. Se, in altri termini, c’è una quota di fabbisogno sommerso che non viene rilevata o che, e questo sarebbe ancora più grave, anche se rilevata non trova risposta. In entrambi i casi non sono disponibili cifre precise. Prendendo a riferimento altri dati, quali quelli inerenti la coesione sociale e gli indicatori di povertà, è possibile ipotizzare che in Italia ci siano almeno 100mila bambini e ragazzi che avrebbero bisogno di un affiancamento educativo diurno.


Occorre "ri-posizionare" l’affidamento familiare. Gli scenari sopra descritti posizionano gli interventi di accoglienza su un asse tardo-riparativo, limitato a "tamponare" le molteplici situazioni di grave crisi familiare, a "mettere in sicurezza" i bambini mediante provvedimenti d’urgenza, ad intervenire in assenza di percorsi di collaborazione con i genitori in difficoltà. Benché l’impianto complessivo della legge 184/83, ed in particolare le modifiche introdotte nel 2001 dalla legge 149, concepiscano l’affidamento familiare innanzitutto come un intervento di prevenzione del disagio minorile e familiare, basato sul consenso dei genitori, e "solo in seconda battuta" come un intervento coercitivo messo in atto dal Tribunale per i minorenni. Ne consegue che l’affidamento familiare acquisisce caratteristiche:
- specialistico-terapeutiche: sia perché l’importanza del disagio (o addirittura del danno) subito dal minore spesso è tale da richiedere intensi interventi da parte di professionisti esperti, sia perché la stessa famiglia affidataria, non potendo nel più dei casi investire sul rapporto con la famiglia naturale (in quanto questa è contraria all’affido), finisce con il perdere di vista il contesto comunitario di origine del minore e con il diventare una sorta di "specialista dell’accoglienza dei bambini";
- legal-burocratiche: la presenza di disposizioni giudiziali cui attenersi, la non rara contrazione della potestà genitoriale, il bisogno di valutare il tenore e gli esiti del percorso di recupero dei familiari del bambino, la frequente ostilità verso l’affido che si sviluppa nella famiglia di origine, accentuano inevitabilmente la funzione di vigilanza svolta dagli operatori, in un meccanismo che finisce con l’avere caratteristiche più di controllo-verifica che di promozione-sostegno (e nel quale anche affidatari e associazioni familiari finiscono in un ruolo distorto, che oscilla tra l’essere co-controllati dai servizi e il porsi come co-controllori della famiglia naturale).
A queste condizioni l’affidamento familiare è destinato a non svilupparsi affatto. L’esperienza di trent’anni anni di affidamento familiare in Italia mostra che se poche sono le famiglie disponibili a impegnarsi in un percorso di affidamento giudiziale addirittura rare sono quelle disposte a continuare a farlo dopo la prima (spesso estenuante) esperienza. Tutto ciò evidenzia quanto sia importante giocare d’anticipo, agendo prima che i problemi s’incancreniscano, spostando l’asse dell’affidamento familiare verso una dimensione incentrata sul consenso della famiglie di origine, sulla collaborazione tra questa e la famiglia affidataria. L’affidamento deve dunque acquisire sempre più caratteristiche di tipo:

  • preventivo (anziché di cura), evitando l’esacerbarsi del disagio, a vantaggio del minore, della famiglia di origine e dell’intero sistema sociale;

  • consensual-comunitario (anziché specialistico), in cui il punto di forza deve essere costituito dal senso di solidarietà e di vicinanza percepito dai genitori naturali e concretamente agito dagli affidatari, dalla comunità e dai servizi. Occorre sviluppare percorsi caratterizzati il più possibile dalla "normalità", che agiscono su problematiche affrontabili da famiglie ordinarie (riducendo la quota percentuale di affidamenti percorribili solo da famiglie speciali – o, addirittura, specialiste);

  • promozionale (anziché legal-burocratico), il percorso tecnico si allarga a interventi di animazione comunitaria e di sensibilizzazione che favoriscano l’organizzazione di forme leggere di prossimità  e lo sviluppo di reti locali d’intervento (capaci di coinvolgere agenzie come la scuola, l’associazionismo, le parrocchie, …), nella consapevolezza che «ci vuole tutta una città per crescere un bambino».


 
 
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